Di Lorenzo Cremonesi da Corriere della Sera del 4 ottobre 2016
Ha avuto il coraggio inusitato di sfidare il regime siriano, la sua famigerata polizia segreta, le maglie strette degli informatori, le minacce dei carnefici e rivelare al mondo gli orrori della tortura nelle carceri di Bashar Assad. «Caesar», come è universalmente conosciuto, passa alla storia come un giusto del Medio Oriente.
Ma oggi, tre anni dopo la sua fuga in Occidente con le 55.000 foto che denunciavano la violenza brutale del regime, Caesar è un uomo solo (per vederle, qui il link), deluso, amareggiato dall’idea di essere stato per molti aspetti messo da parte, se non dimenticato.
«Con il suo lavoro pensava di poter finalmente cambiare le cose, mettere fine alle torture, denunciare i crimini e mobilitare le opinioni pubbliche internazionali. E invece si trova a vivere braccato in una città europea, mentre assiste impotente al dramma sempre più grave che insanguina il suo Paese e adesso si concentra nei feroci bombardamenti del regime e dei russi contro i quartieri orientali di Aleppo», ci ha spiegato Mouaz Moustafa, 31enne siriano attivista per i diritti umani che si occupa delle diffusione delle foto dell’amico e compagno di lotta.
L’incontro è avvenuto alla conferenza stampa di presentazione della mostra dedicata alle foto a Roma. L’occasione è importante per l’Italia, ma costituisce anche una nuova denuncia per la ritrosia con il nostro Paese ha trattato le foto. In passato si era infatti pensato di esporle in parlamento, come del resto era già avvenuto nelle sale del palazzo delle Nazioni Unite a New York, oltre che in quelle dei parlamenti britannico ed europeo. Ma poi per motivi di opportunità, con la spiegazione che le immagini sono «troppo crude», l’iniziativa era stata bloccata.
Ora se ne fanno carico la Federazione della Stampa Italiana, assieme a Amnesty International Italia, la Federazione degli Organismi Cristiani (Focsiv), Un Ponte Per e l’Unione delle Università del Mediterraneo.
Da mercoledì 5 a domenica 9, almeno 29 di quelle che illustrano l’immensa galleria degli orrori imposti dal regime sulla sua popolazione, saranno esposte al museo Maxxi di Roma. Le foto sono dunque ben note da tempo a chiunque si occupa di Siria. Come del resto lo è la vicenda di questo cittadino siriano che riceve l’ordine di documentare per via fotografica i decessi dei torturati dall’inizio della rivolta popolare nel marzo 2011 e due anni dopo decide che gli orrori sono troppo gravi e su larga scala per non cercare di denunciarli.
Secondo gli esperti, e contro tutti i tentativi da parte del regime di Damasco di bollarli come falsi, le immagini sono quelle di 6.786 morti, dei quali quasi 800 identificati. I cadaveri sono ridotti spesso a monconi sanguinolenti, molti hanno gli occhi strappati, hanno subito scosse elettriche ai genitali, riportano bruciature, segni di percosse gravi su tutto il corpo. Eppure, sono proprio l’aggravarsi della guerra in Siria, le continue e sempre più gravi violazioni contro i diritti umani più elementari, il metodico bombardamento di ospedali e qualsiasi tipo di assistenza medica e umanitaria nelle zone controllate dalle milizie ribelli, a spiegare i motivi della «depressione» di Caesar.
«Ha incontrato tanti politici europei. Negli Stati Uniti è stato ascoltato dal Congresso, dai militari al Pentagono ed è stato persino ricevuto alla Casa Bianca. Ma nel concreto nessuno fa nulla. Tante belle promesse e poco più», dicono ancora gli attivisti che tentano di mantenere viva la sua denuncia. Alla conferenza stampa di presentazione è stato tra l’altro osservato che Caesar cominciò a riprendere le immagini dei torturati sin dalle prime battute delle rivolte, quando le manifestazioni erano ancora pacifiche, non esistevano Isis e neppure i gruppi qaedisti come Al Nusra. Ciò per sottolineare che fu proprio la brutalità della repressione governativa a innescare il circolo della violenza. E nessuno è mai stato punito.