a cura di Monica Macchi
Chawki Senouci, nato in Algeria, vive a Milanodall’inizio degli anni ’80 dove si è laureato in ingegneria. Ha poi preferito inseguire la sua passione: il giornalismo. Ora è caposervizio a Radio Popolare e curatore della trasmissione “Esteri “. Per quindici anni ha condotto la trasmissione di musica pop rai “Oran- barbes” e un’altra di musica elettronica, “ Blue Lines”. Nel ’98 ha scritto per la Baldini e Castoldi “ la Battaglia del rai “ insieme a Marcello Lorrai. Un saggio e un libro di storia musicale con il ritmo di un romanzo. Chawki è anche insegnante al master del giornalismo all’Università Cattolica.
Cosa ti ha spinto a venire proprio in Italia? E qual è il tuo rapporto oggi con la tua Algeria?
Mi ha spinto soprattutto la voglia di cambiare aria, di provare una nuova avventura e una nuova esperienza. La scelta dell’Italia diventa una dettaglio; Ho scelto il politecnico a Milano solo per seguire degli amici che si erano iscritti l’anno prima, non mi pento affatto della mia scelta. Quanto all’Algeria, c’è un rapporto di distacco e di amore, amore per la mia terra, gli amici e la famiglia e ho molta nostalgia di tutto ciò. C’è anche un pizzico di dolore nel vedere il mio Paese e la mia gente sciupati e violentati dalla corruzione, dai saccheggi e dall’arroganza del potere.Provo un certo distacco e un certo imbarazzo nei confronti della mentalità che impera oggi in Algeria, ormai tutto gira attorno ai soldi e la qualità della persona viene pesata in relazione alla sua ricchezza, al tipo di auto che possiede e ai metri quadri della casa che abita.
Com’è stato l’impatto con l’Italia? Hai vissuto in altre città oltre che a Milano?
Il mio primo impatto con l’Italia e’ stato molto soft perché ho vissuto a Perugia dove ho imparato l’italiano: La qualità della vita in Umbria ti fa sentire bene. Più traumatico è stato, invece, il mio impatto con Milano, che mi è sembrata all’inizio una città fredda, brutta e senza qualità. Ovviamente, mi sbagliavo. Milano, piano piano, mi è entrata nel sangue diventando per me la città più bella del mondo. E’ una specie di magnete e non mi ci vedo in un altro posto.
Come potresti descrivere il tuo rapporto con l’arabo e con la lingua acquisita, l’italiano?
Non ho un bel rapporto con l’arabo. Sono figlio dell’indipendenza, praticamente all’inizio non c’erano insegnanti algerini, il 90% della mia formazione scolastica l’ho fatta in lingua francese e ho avuto degli insegnanti francesi fantastici.
Non posso dire la stessa cosa degli insegnanti egiziani che Nasser e Sadat ci hanno mandato per insegnarci l’arabo, ci facevano pesare il nostro “analfabetismo”, e io li guardavo come degli alieni; non li capivo e non sopportavo la loro arroganza. L’italiano mi piace, è il mio strumento di lavoro: a casa mi diverto a sfogliare i vocabolari e ogni giorno scopro una nuova parola.
Cosa pensi dell’analisi di Choubachy secondo cui per “salvare” l’arabo occorre abbandonare la forma letteraria – che ormai non parla quasi nessuno – e utilizzare una variante intermedia in uso nella stampa?
Il problema non è l’arabo classico, basta vedere la grande popolarità di al-Jazeera. Ho letto da qualche parte che Choubachy era stato contestato dagli islamisti, e mi sembra strano. In Algeria, negli anni ’90, i leader del Fronte islamico di Salvezza (Fis) usavano durante la campagna elettorale il dialetto o un misto tra arabo classico e il linguaggio della strada che è diverso da Paese a Paese. Il problema di Choubachy e degli intellettuali egiziani è che vedono ancora il loro Paese come l’ombelico del mondo. Il vero dramma per gli arabi è il gap tecnologico e scientifico. Infatti, i Paesi arabi scontano i tassi di analfabetismo più alti al mondo e il più basso numero di ricercatori attivi con articoli pubblicati nelle riviste scientifiche.
Rispondo alla José Mourinho: Io conosco Claudio Agostoni, il mio maestro in radio, conosco il grande Claudio Abbado, conosco il cantante Claudio Villa ma non conosco questo signore… che per attirare la mia attenzione deve dire delle cose importanti, altrimenti preferisco continuare a commentare i discorsi di Barack Obama e di Sarkozy e a recensire i saggi di Ahmed Rashid, Seymour Hersh e Tariq Ali o i grandi romanzi di David Grossman o Asia Djebar. A parte la mia citazione calcistica, ormai da quando c’è Sky non guardo più i tg della Rai e quindi sinceramente è la prima volta che sento fare il nome di Pagliara. Per quanto riguarda i mass media italiani, e mi dispiace dirlo, in questo momento non sono all’altezza né sul Medio Oriente né sulle altre questioni internazionali. Stampa e tv impegnano risorse e mezzi unicamente sulla politica interna, sulla cronaca e sul gossip.
Cosa pensi del forte aumento di italiani che studiano arabo? A Damasco gira la storiella che ad agosto il quartiere di Bab Tuma venga soprannominato “Bab Ruma” a causa dell’alta presenza di italiani…
E’ un modo per campare, il mondo arabo offre molto: guerre, tensioni regionali e affari legati al petrolio. Conoscere l’arabo potrebbe essere una buona opportunità per lavorare. Comunque, sarà un bene per l’Italia; avere degli specialisti italiani del mondo arabo che parlino arabo è un valore aggiunto, oggi i nostri giornalisti per raccontare il Maghreb devono consultare i giornali francesi e per il Mashrek si copia dai giornali inglesi.
Nella tua esperienza di vita in Italia ti è mai capitato di sentirti vittima di un modo di pensare discriminatorio?
Vittima, mai. Infastidito, qualche volta ma non ci faccio caso. Rispondo con i fatti cercando di migliorare ogni giorno.
Qual’è stata la dimensione sociale e culturale e l’influenza del rai a cui hai anche dedicato un libro?
Per me il rai è stata la vendetta di un modo di essere algerino sulla presunta superiorità culturale egiziana e orientale in generale che avevano occupato negli anni ’70 le nostre tv, le nostre radio e le nostre vite. In Algeria, il rai ha picconato il muro delle ipocrisie e squarciato il velo su molti temi tabù, ha rivendicato certi sentimenti che sono stati repressi dalla società come, ad esempio, l’amore tra un uomo e una donna, il bisogno di provare e di chiedere affetto, la voglia di intimità e sul piano squisitamente politico è stato un grido di libertà contro il disprezzo dei politici nei confronti del popolo.