Da comune.parma.it del 16 giugno 2021
Una sessantina gli scatti realizzati da Farian Sabahi in Libano, Siria, Iraq, Iran, Emirati Arabi, Azerbaigian, Uzbekistan e Yemen tra il febbraio 1998 e la primavera 2005 ed esposti per la seconda volta, dopo la mostra al MAO Museo d’Arte Orientale di Torino (2019). In persiano e in arabo, Safar vuole dire viaggio. Una parola che in sé racchiude i molteplici significati della mostra: racconta i viaggi di Farian Sabahi, le Terre e le persone ritratte e al contempo esorta il visitatore a compiere un viaggio, doppio, geografico ed emotivo.
Così, i versi del poeta di lingua persiana Rumi ricamati dalla giovane artista Ivana Sfredda accolgono il visitatore: Anche se tu non hai piedi, scegli di viaggiare in te stesso, versi volti ad evocare l’importanza del viaggio e dell’apertura alle culture altre nel processo di crescita personale.
La mostra si colloca nella programmazione delle iniziative dell’Assessorato alla Partecipazione e Diritti dei Cittadini, guidato dall’Assessora Nicoletta Paci, dedicate alla riflessione sui diritti e i doveri individuali e collettivi, per interrogarsi su diritti ancora negati, già acquisiti ma messi in discussione, ancora da raggiungere. Con il patrocinio di Action Aid, Amnesty, Emergency, Ciac. La giornalista e studiosa Farian Sabahi ci restituisce un mondo visto e immortalato poco prima e immediatamente dopo che in alcuni di questi Paesi iniziassero terribili i conflitti, un mondo stravolto anche dove la guerra non si è combattuta, dove però permangono le cicatrici dei vecchi conflitti o dove il progresso si contrappone forte e arrogante agli aspetti più tradizionali del vivere quotidiano. L’inviato di guerra Alberto Negri nella prefazione del catalogo scrive “Nulla di tutto quello che vediamo in questi scatti ci è estraneo. È un mondo diverso ma non così esotico. Abbiamo contribuito pesantemente alla sua distruzione.
È difficile raccontare cosa volesse dire vivere in Iraq o Siria in questi anni, sotto i bombardamenti, asserragliati senza mai potere uscire. La morte arrivava dall’alto con i raid aerei o i missili, oppure in maniera silenziosa sulla lama di un coltello. E molti dei monumenti, dei muri, delle case, dei volti delle persone che qui sono ritratti non ci sono più. Perduti per sempre. Ecco perché l’immagine, anche la più innocente, come il sorriso di un bambino, non è semplicemente un ricordo ma un atto d’accusa”. La restituzione di questo sentire è data dall’installazione site specific, lo Spazio A diventa uno spazio atemporale in cui le fotografie si alternano come i ricordi di vecchi viaggi, dove è difficile distinguere un prima da un poi.
Le fotografie, realizzate originariamente in diapo 100 ASA Fuji sensia a colori e stampate per la mostra su carta museale opaca, erano state presentate al MAO Museo d’Arte Orientale di Torino senza cornici, senza stretti confini, ma appese a un filo da pesca per tonni ad evocare la precarietà della vita in Medio Oriente, appesa appunto a un filo. Un filo trasparente, che non si vede ma è molto resistente e rappresenta al contempo il contesto all’interno del quale le vite sono imprigionate spesso a causa di dittature e conflitti. Il filo da pesca evoca anche la morte, le vite appese, imprigionate e poi negate, come dice Farian Sabahi “il filo da pesca ricorda il Mediterraneo e le tante vittime di questi anni”. Corredo alle immagini sono i passaporti italiano e iraniano con i visti per quei Paesi, la macchina fotografica Nikon e gli obiettivi usati, il registratore. E ancora le pagine dei quotidiani dell’epoca, tra cui gli articoli e i reportage su IlSole24Ore firmati da Farian Sabahi, fissate come in una bacheca. Arabo, persiano, italiano, francese e inglese sono le lingue che animano il tappeto sonoro. Le voci che abbracciano il visitatore e lo traghettano “dentro” la storia sono dello scrittore turco e Nobel per la Lettaratura Orhan Pamuk, di Padre Paolo dell’Oglio, del poeta siriano Adonis, di un pescatore sul Tigri, dell’ex presidente iracheno Saddam Hussein, di un omosessuale a Dubai, dell’ex presidente iraniano Muhammad Khatami, dell’architetto Darab Diba, del filosofo Dariush Shayegan, dell’avvocata e attivista pachistana Bilqis Tahira, dello storico azerbaigiano Altay Geyushev, dell’artista e gallerista azerbaigiana Aida Mahmudova, di Pierpaolo Pasolini, dell’attivista yemenita insignita del Nobel per la Pace Tawakkol Karman, della scrittrice iraniana Azar Nafisi. A congedare il visitatore ancora i versi di Rumi nei quali il viaggio è un’esperienza che porta alla conoscenza e, nel nostro caso, al rifiuto del dualismo tra Occidente e Oriente, a decidere di non dichiararsi appartenenti a un mondo o all’altro. Io non sono dell’Est né dell’Ovest. Ho riposto la dualità e visto i due mondi come uno.
In occasione della mostra allo Spazio A, Farian Sabahi mostrerà al pubblico parmense anche il suo cortometraggio I Bambini di Teheran (33 minuti) che era già stato al MAO Museo d’Arte Orientale di Torino e al MUDEC Museo delle Culture di Milano (2018). Sono quattro le testimonianze degli ebrei polacchi, ormai anziani, intervistati in Israele nel 2008 e 2010. Le loro vicende sono divise a tappe geografiche, congiunte dalla voce fuori campo di un quattordicenne. Appena prima dell’inizio della Seconda guerra mondiale erano scappati dalla Polonia invasa dai tedeschi verso la Polonia occupata dai sovietici. Da qui, erano stati deportati nei campi di lavoro in Siberia. In un secondo tempo erano riusciti ad arrivare in Uzbekistan dove vissero negli orfanotrofi fino a quando furono portati sulle coste del Mar Caspio e da lì a Teheran, che il 25 agosto 1941 era stata invasa dalle truppe britanniche e sovietiche. A Teheran, gli inglesi trasferirono 33mila soldati polacchi e 11mila rifugiati di cui 2mila ebrei, la metà minorenni destinati a un campo rifugiati allestito nell’agosto 1942 e finanziato dal governo polacco in esilio; cibo e medicine erano fornite dalla comunità ebraica iraniana, dalla Croce Rossa americana, da organizzazioni ebraiche e sioniste. A Teheran, i rifugiati polacchi trascorsero il periodo più lungo (da qui il nome Bambini di Teheran) prima di raggiungere quella che ancora era chiamata Palestina, dove furono smistati in base alle abitudini della famiglia di provenienza: i figli di rabbini furono destinati allo studio della Torah, gli altri ai kibbutz. Ma qualcuno riuscì a imbrogliare… La colonna sonora del video è Elegy for the Arctic, per gentile concessione di Ludovico Einaudi.
L’ingresso in mostra è gratuito. Orario: dal martedì al venerdì 15-19, sabato e domenica 10-19, lunedì chiuso.
Farian Sabahi (1967) – Giornalista professionista specializzata sul Medio Oriente, scrive per Il Corriere della Sera, il settimanale Io Donna e il manifesto. È titolare del seminario “Relazioni internazionali del Medio Oriente” presso l’Università della Valle d’Aosta e insegna “Giornalismo tra diritti e libertà” all’Università dell’Insubria. Storia dell’Iran 1890-2020 (Il Saggiatore 2020) è il suo ultimo libro. Nel memoir Non legare il cuore. La mia storia persiana tra due paesi e tre religioni racconta le sue vicende e quelle di famiglia (Solferino 2018). Tra gli altri suoi volumi: Un’estate a Teheran (Laterza), Islam. L’identità inquieta dell’Europa (Saggiatore) e Storia dello Yemen (Bruno Mondadori). Noi donne di Teheran (disponibile anche in francese e in inglese) e il libro-intervista Il mio esilio con l’avvocato iraniana Shirin Ebadi insignita del Nobel per la pace sono pubblicati da Jouvence. Nel 2010 è stata insignita del Premio Amalfi sezione Mediterraneo, nel 2011 ha ricevuto il Premio Torino Libera intitolato a Valdo Fusi, e nel 2016 il Premio giornalistico “Con gli occhi di una donna” organizzato dai Lions di Parma.
Il suo sito è www.fariansabahi.com È raggiungibile per e-mail all’indirizzo farian.sabahi@gmail.com