Di Chiara Comito da Internazionale del 16 gennaio 2017
“Il 31 dicembre del 1958 Lila ebbe il suo primo episodio di smarginatura. Il termine non è mio, lo ha sempre utilizzato lei forzando il significato comune della parola. Diceva che in quelle occasioni si dissolvevano all’improvviso i margini delle persone e delle cose”.
È così che Elena Ferrante introduce il concetto di smarginatura ai lettori della tetralogia dell’Amica geniale: è il capodanno del 1958 a Napoli e gli amici e le famiglie di Lila ed Elena, le due protagoniste, si sono radunati sul terrazzo a lanciare fuochi di artificio. Gli amici intrecciano con gli abitanti del palazzo davanti una battaglia all’ultimo sangue, che accende gli animi e li trasforma in combattenti astiosi e violenti. Guardando suo fratello Rino mischiarsi alla lotta, Lila sperimenta la smarginatura: i margini del Rino che conosceva prima si dissolvono con violenza e dalla spaccatura delle ossa, del corpo e della faccia del fratello emerge una seconda natura, più violenta, più crudele, plasticamente ripugnante agli occhi di Lila. Le smarginature per Lila coincidono sempre con dei violenti momenti di passaggio nella sua vita: quando le avverte, il suo mondo precostituito va in pezzi e la sintesi tra l’esterno e l’interno delle cose si rompe, liquefacendosi. Da quella poltiglia di cose e forme, Lila vede emergere la vera natura delle persone, spaventosa e perturbante.
Questo termine, smarginatura, mi ha sempre affascinata. Il suo campo semantico originale è quello della tipografia, ma nel particolarissimo lessico di Ferrante assume tutto un altro significato. Mentre seguivo con orgoglio e interesse il successo internazionale dell’Amica geniale, mi sono chiesta come i traduttori lo avessero reso nelle altre lingue. Ann Goldstein, la traduttrice che ha curato la versione in inglese, così ha risposto alla domanda in un’intervista pubblicata sul Corriere canadese:
‘Smarginatura’ è una parola della tipografia che significa ‘togliere le marginature alle forme stampate’ o ‘tagliare i margini delle pagine’. Non è una parola comune, neanche in italiano. Ho cominciato con una traduzione letterale, ‘trimming the edges’, quindi ‘losing the edges’. Ho provato con ‘dissolving the margins’ o ‘dissolving the boundaries’ e alla fine ho deciso che ‘dissolving margins’ esprimeva sia il contenuto emotivo sia il senso originario della parola.
Quando ho saputo che la tetralogia era in corso di traduzione anche in arabo, non ho potuto fare a meno di porre la stessa domanda al suo traduttore, Muauia Abdelmagid, siriano di Damasco, laureato in lingua e cultura italiana all’università per stranieri di Siena, un master in culture letterarie europee a Bologna e già traduttore in arabo – tra gli altri – di Erri de Luca, Niccolò Ammaniti e Italo Svevo. Muauia mi ha dato più o meno la stessa risposta: “Si sa che questo termine viene spesso usato per indicare la consumazione dei margini dei libri. Quindi in arabo viene più o meno descritto come ‘disfacimento dei margini’ (inhilal al hawamish). Questo termine arabo mi sembrava perfetto, perché da un lato rispecchia il modo con cui le cose si dissolvono, e dall’altro allude metaforicamente a una dissoluzione morale. Una scelta difficile, ma responsabile direi, e – alla Eco – ‘sembra dire quasi la stessa cosa’”.
Il traduttore a dura prova
“Smarginatura” non è stato l’unico termine di Ferrante che ha messo a dura prova la bravura della traduzione di Muauia: i nomi di luoghi sconosciuti al lettore arabofono, i vari Rino, Gino, Nino, difficili da ricordare per un orecchio non abituato a memorizzare e a distinguere questi suoni (e d’altronde, non è mica facile neanche per noi mandare a mente i nomi propri arabi della letteratura araba o quelli russi della letteratura russa). Ma, mi dice Muauia: “Il rione popolare di Napoli della Ferrante può essere paragonato, in un certo senso, a quello popolare del Cairo di Nagib Mahfuz”, lo scrittore egiziano premio Nobel per la letteratura nel 1988, che descrisse i quartieri della sua città in diverse opere, tra cui la Trilogia del Cairo e Il rione dei ragazzi.
La traduzione in arabo dell’Amica geniale, pubblicata dalla prestigiosa casa editrice libanese Dar al Adab, è stata presentata ufficialmente in anteprima a dicembre, nel corso dell’ultima fiera internazionale del libro di Beirut, e ha già registrato un buon successo di pubblico. La notizia dell’ottima traduzione aveva già fatto il giro dei lettori che, alla precedente fiera del libro di Sharjah, negli Emirati Arabi Uniti, in soli due giorni si erano accaparrati un centinaio di copie. Ho scritto “ottima traduzione” perché così l’ha definita Rana Idriss, direttrice di Dar al Adab, che mi ha confermato: “Muauia ha fatto un lavoro eccellente, tanto che alcuni lettori cercano il libro facendo il suo nome”.
Dar al Adab ha un catalogo dove la letteratura internazionale in traduzione occupa una bella fetta accanto alla letteratura araba e prima di Ferrante aveva già pubblicato Alberto Moravia. Ma i lettori arabi conoscono bene anche Pier Paolo Pasolini, lo stesso Umberto Eco, Italo Calvino, Antonio Tabucchi, Valeria Parrella e molti altri.
Tra il 1970 e il 2010 sono state tradotte in arabo 199 opere di narrativa italiana. Lo rivela una ricerca del 2012 condotta da specialisti di traduzione, nell’ambito del programma Mapping of translation in the Euro-Mediterranean, coordinato dalla rivista francese Transeuropéennes e sostenuto dalla fondazione Anna Lindh. Il dato è citato dall’arabista e traduttrice Elisabetta Bartuli in un articolo sulle traduzioni dall’italiano in arabo pubblicato su Books in Italy qualche anno fa. Bartuli, a ragione, sottolinea come il numero sia fondamentalmente “congruo” con quello delle traduzioni effettuate dall’arabo verso l’italiano nello stesso arco di tempo. Il che evidenzia una sostanziale pigrizia “traduttiva” da entrambi i fronti.
Nel frattempo il primo volume dell’Amica geniale è già in distribuzione, oltre che nel Libano e negli Emirati Arabi Uniti, anche in Egitto, in Iraq e in Arabia Saudita. Il secondo volume sarà invece presentato alla prossima fiera internazionale del libro di Abu Dhabi che si terrà ad aprile, a distanza di qualche mese, rivela Rana, così da “creare la necessaria suspense tra i lettori”.
La traduzione dei romanzi di Elena Ferrante in arabo è quindi un’ottima notizia per il nostro mercato editoriale. Ma non solo. Lo è anche per le relazioni culturali tra Italia e mondo arabo, in un momento in cui la fiducia e la comprensione degli italiani verso gli arabi sono ai minimi storici.
Volendo forzare un po’ il concetto, potremmo dire che è in atto una “smarginatura”, o uno scollamento, tra le due comunità. Ma sapere che dall’altra parte del Mediterraneo esiste un pubblico numeroso di lettori arabofoni che legge e apprezza la nostra letteratura non può che aiutarci a sfatare qualche malinteso e rafforzare la reciproca identificazione. E, forse, può contribuire a riannodare i fili sfilacciati di quel rapporto umano e culturale che da secoli lega profondamente l’Italia alla riva sud del Mediterraneo.