Widad Tamimi
Le Rose del Vento
Mondadori, Cles (TN) 2016
Recensione a cura di Chiara Maria Lévêque
Le Rose del Vento è un libro a cui ci si affeziona. E tanto più perché narra di vite realmente esistite e talmente diverse che la finzione non avrebbe mai avuto il coraggio di intesserle veramente come invece ha saputo fare la realtà. Widad è figlia di un profugo palestinese e di una donna ebrea la cui famiglia dovette abbandonare l’Italia per sfuggire alla persecuzione.
“Quante generazioni ci vogliono per seppellire un esilio?” è questa la domanda alla quale l’autrice tenta di rispondere risalendo i rami di un intricato albero genealogico, nella convinzione che “voler sapere non è una scelta, ma un’esigenza”.
Il libro, alternando lo spaccato di vita delle due famiglie, ci conduce nel 1949 a Hebron. Um Fadhel ha già perso cinque figli e ora la stessa sorte sta per toccare anche al piccolo Khader. Ma la donna ancora non sa che il piccolo è destinato a salvarsi in maniera leggendaria.
Nel 1932 il sipario si alza invece su Trieste. È qui che Miss Margaret giunge per insegnare inglese a Carlo e Piero, figli di una ricca famiglia ebrea locale. Ottocaro Weiss desidera il meglio dell’istruzione per i propri figli e la moglie Ortensia non può che esserne felice. La casa dei Weiss “traspirava cultura e impegno politico da ogni poro”, vi si praticavano le arti e l’esercizio del pensiero. Ma tutt’attorno l’Europa è in fermento. Molti ebrei si stanno spostando a Gerusalemme nonostante le smentite inglesi riguardo al progetto di uno stato ebraico in Palestina.
Siamo di nuovo a Hebron, è il 1954. La vita è dura per Um Fadel, che rattoppa di notte le coperte bucate in cambio di un pentola di zuppa con cui sfamare i suo tre figli. “Il primo martedì mattina di ogni mese arrivava il camioncino dell’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, carico di coperte, giacche calde e maglioni per bambini”. Khader è felice, dice alla mamma che è un bambino fortunato perché, non avendo niente, sa dare valore alle cose e non le spreca. La sua è una intelligenza brillante e il desiderio di diventare medico per curare un giorno tutti i bambini della Palestina sarà il motore della sua vita: con questa idea in testa il piccolo si batte per poter andare alla scuola pubblica e non a quella malridotta dei profughi: “voglio imparare per davvero! (…) In quella scuola di straccioni non ci vado”.
Nel 1938 il racconto ci catapulta in Svizzera. E’ la prima tappa dell’esilio per la famiglia Weiss. Il fascismo non lascia scampo. “Ottocaro aveva trovato un buon compratore per la fabbrica di olii vegetali. Ancora non sapevano che si sarebbe rivelata fondamentale per il successo della loro fuga. Il compratore, infatti, aveva depositato i suoi soldi in una banca in Inghilterra e questo facilitò enormemente le cose, dato che presto gli ebrei non poterono più trasferire i propri capitali all’estero”. Dopo aver vissuto in Gran Bretagna, nel 1940 la famiglia si imbarca sull’ultima nave in partenza per gli Stati Uniti. La chiave della villa viene gettata in mare, i saldi legami familiari iniziano a disgregarsi.
Nel 1967 i venti di guerra soffiano caldi in Medio Oriente. L’esilio tocca di nuovo anche Khader e la sua famiglia. Destinazione Giordania, l’illusione di assentarsi solo per pochi giorni e la decisione di lasciare lì l’amato cane Leki ad attenderli. Non fecero ritorno. La proprietà requisita. “Lo riportammo in Palestina, ben quarant’anni più tardi, noi quattro figli. Ma di andare a Hebron non ne volle sapere”.
- La guerra finisce e inizia la conta dei morti. Nemmeno la famiglia di Ottocaro ne è immune. “Della grande famiglia di un tempo, degli incontri nelle ville, i pranzi sul Carso, le discussioni animate e gli scambi affettuosi, non restò che il ricordo”.
Nel 1946 il ritorno in Italia. Il piccolo Carlo è ormai un uomo sconvolto dalla guerra. La povertà che incontra a Sud lo angoscia e solo raggiungendo Milano e Torino riaffiora in lui la speranza che il suo Paese possa essere in grado di rialzarsi.
Il destino sta tessendo le sue trame e sta per condurre in Italia anche Khader. Siamo nel 1969. La facoltà di medicina di Perugia lo attende. Da qui in poi la storia corre svelta. “Papà mi racconta di non aver mai dovuto affrontare problemi di razzismo. Si sentì accettato, forse diverso, ma sicuramente nella posizione di potersi integrare. E si integrò, come fecero i suoi compagni arabi”.
Nel 1968 irrompe sulla scena Claudia, figlia di Carlo, studentessa del liceo Parini di Milano, all’alba del movimento studentesco e in rotta con l’origine borghese della sua famiglia.
Il 1978 farà incontrare Khader e Claudia. Un’intervista sulla causa palestinese, l’innesco. Milano a fare da cornice. La loro passione è forte quanto l’abissale differenza. “Io non posso darti neanche un briciolo di quello a cui tu sei abituata, io sono un poveraccio, vengo dalla sabbia, dalla terra, potrei forse sposare la figlia del custode”. “Dammi un po’ della tua libertà Khader, quella che non ha niente a che fare con il denaro e il prestigio” implora Claudia.
11 febbraio 1981, nasce Widad, che in arabo significa amore.
“E nella polvere scavo, da che sono ragazzina, in cerca degli inscindibili intrecci fra la storia privata e la Storia del mondo” e in questo commovente racconto familiare Widad ci accompagna davvero nelle tappe cruciali che hanno segnato il destino di tanti esseri umani nel 1900, le cui conseguenze tracciano ancora oggi i contorni delle nostre esistenze.