di Elisa Ricco
Shady Hamadi è uno scrittore e giornalista italiano di seconda generazione, nato in Italia da padre siriano e madre italiana. Nei suoi libri, Voci di Anime e La Felicità araba, la Siria rimane al centro della narrazione, un Paese che dallo scoppio della rivolta nel 2011 ha visto Shady in prima linea contro il regime, divenendo un attivista per i diritti umani.
Shady, sei un giovane di seconda generazione come molti altri ragazzi nel nostro Paese. Credi che in Italia si possa parlare di una vera integrazione multiculturale o la strada da fare è ancora lunga?
Non esiste un Paese in cui il livello di integrazione è perfetto. Si tratta di qualcosa che può essere costantemente migliorato. Io sono nato in Italia, ho la cittadinanza italiana quindi non ho mai provato su di me questi problemi. Credo però che quello che conti siano i diritti fondamentali, i diritti civili. Se il governo rispondesse a questi bisogni, dando per esempio la cittadinanza a quelli che sono nati e cresciuti in Italia e che talvolta parlano solo italiano, si riuscirebbero a evitare delle derive di tipo identitarie nei giovani, i quali rischiano di estraniarsi dalla nostra società legandosi ad una rappresentazione distorta delle loro società di origine. Penso per esempio a giovani che ho conosciuto e sono legati alla loro identità non nazionale bensì religiosa, quella musulmana, e la interpretano in maniera più ristretta rispetto alla popolazione del loro Paese di origine. Questa dinamica può diventare un problema, perché quello che emerge è una forma di emigrazione dentro un’altra emigrazione. Ci ghettizziamo dentro la nostra stessa emigrazione. Si tratta di qualcosa che deve essere superato.
La Siria è il paese di tuo padre. Che cosa rappresenta per te questo Paese? E qual è invece il tuo rapporto con l’Italia?
Il mio rapporto con l’Italia è bellissimo. Sono nato qui, sono italiano ma mi sento anche siriano. Il mio rapporto identitario con la mia identità è un rapporto occasionale. Ci sono alcune situazioni nelle quali mi sento più siriano, per esempio quando sento discorsi xenofobi, contro gli immigrati. In questi casi esce quella parte di me che è legata alle origini di mio padre. Quando invece mi trovo all’estero ecco prevalere la mia italianità, il legame con le mie radici e perché no… il voler mangiare gli spaghetti a Beirut. La mia formazione educativa è italiana. Inoltre non sarei quello che sono se non avessi i nonni italiani di Todi, un paese vicino a Perugia. Il mio rapporto con la Siria è qualcosa che a volte appare difficile perché vivo in una sorta di condizione di esilio. Sono stato lontano per molto tempo dalla Siria, vi sono tornato diverse volte e in questo momento sono nuovamente lontano, esiliato.
Hai scritto due libri: Voci di anime e La felicità araba. Storia della mia famiglia e della rivoluzione siriana. Da che cosa nasce questa tua passione per la scrittura?
Da una ricerca introspettiva. Lo stesso Pietro Citati, il famoso critico letterario, indaga nei suoi libri il perché una persona inizia a scrivere, che cosa ha spinto i grandi scrittori a dedicarsi alla scrittura. Non si tratta di una cosa che arriva dal nulla. Per molto tempo non ho scritto, poi sono accaduti eventi nella mia vita che mi hanno portato a farlo. Per esempio, ne La felicità araba ho voluto ricostruire una parte della storia della mia famiglia, che non è ancora finita. Quello che mi spinge è una domanda ricorrente, perché siamo qua, perché certe cose accadono. Io personalmente cerco negli altri scrittori le risposte alle mie domande.
Qual è lo scrittore che ti ha maggiormente ispirato?
Khalil Gibran. I suoi libri sono stati davvero illuminanti per me perché sebbene 100 anni prima di me, Gibran ha vissuto la nascita in un luogo e la migrazione verso un altro luogo, nel suo caso gli Stati Uniti. Ha inoltre questa vena mistica, ecumenica, critica nei confronti della società da cui proviene, il Libano che all’epoca era parte della Siria ottomana. Gibran è uno scrittore che mi ha fatto riflettere: noi che siamo qui all’estero, che siamo nati qui, dobbiamo difendere il nostro Paese ma non possiamo nemmeno esimerci da una critica nei confronti della società siriana, araba. E sono certo che non vivendo lì possiamo avere un occhio più oggettivo. Oltre a Gibran, ce ne sono molti altri. Penso ad un altro scrittore, anche lui libanese, Amin Maalouf. C’è un libro che davvero mi è molto caro, Origini, in cui racconta di essersi spinto fino a Cuba per ritrovare un suo avo.
Il tuo ultimo libro si intitola La felicità araba. Quale felicità è rimasta ancora nel mondo arabo, in Siria in particolare. Si può ancora essere felici in Medio Oriente?
L’idea è nata quando mi imbattei un pomeriggio nel libro di Samir Kassir. Era il 2009, avevo 22 anni e lo lessi tutto di un fiato. Mi colpì molto perché nel suo libro trovai proprio quello che avevo pensato tornato dalla Siria e la lucidità con la quale discuteva del fatalismo, del vittimismo degli arabi. Nel mondo arabo siamo abituati a dare la colpa alla storia, alle influenze esterne. Il che in parte è ragionevole ma la speranza che tutto quanto si aggiusti dipende soprattutto da noi, siamo noi che dobbiamo essere artefici del nostro futuro. Con il mio scritto ho voluto rispondere a Samir Kassir. Lui indagava storicamente quelle che erano le cause che provocavano l’infelicità degli arabi: una di tipo geografica, perché sotto di noi c’è il petrolio, e una sociale, il giudizio degli altri e soprattutto di quello degli americani sull’Islam. Io credo che ci sia ancora spazio per la felicità per l’uomo arabo. Il mio auspicio è che un giorno, come ho scritto anche nel mio libro, l’arabo possa destare una certa stima. Essere considerato un partigiano sceso in strada pronto a pagare con il sangue la sua richiesta di libertà. Il mio ultimo libro è un manifesto per quello che sta accadendo in Siria con il quale ho voluto alzare la voce contro una società che non vuole riconoscere la società araba. Spetta a noi, agli arabi, diventare artefici della nostra vita. Per farlo dobbiamo esserne consapevoli e dobbiamo essere critici anche con noi stessi.
Nel tuo libro critichi il giornalismo carico di stereotipi e semplificazioni. Chi, secondo te, sta portando avanti un giornalismo etico?
Devo rigirare questa domanda. Mi chiedo come sia possibile che una persona che si occupi di Medio Oriente non sappia l’arabo. E’ possibile che tra coloro che si definiscono esperti di Medio Oriente nessuno legga un giornale arabo, come al-Sharq al-Awsat o an-Nahar? Allora perché gli arabi scrivono? Devono essere raccontati o si possono raccontare? Parte quindi proprio da qui la grossa sfida che deve avere il giornalismo, altrimenti non ci capiremo mai. Per poter parlare di mondo arabo dobbiamo studiarne la lingua, leggere i loro giornali e dar loro gli strumenti per raccontarsi.
La lingua gioca sempre un ruolo centrale. Tu che peso dai all’arabo?
La lingua araba è una lingua molto difficile, una lingua che non si finisce mai di imparare. Specialmente per noi che abitiamo lontano e siamo figli, come nel mio caso, di un genitore italiano e di uno arabo diventa qualcosa di ancora più difficile. Credo però che non conoscere questa lingua significhi perdere una parte della nostra identità. Come pensiamo di comprendere davvero i nostri parenti se non parliamo la loro lingua? Come possiamo capire il loro amore o le loro disillusioni? Se davvero vogliamo completare la nostra identità dobbiamo approcciarci verso questa lingua. Come sarebbe aprire un cassetto e trovare la lettera di nostro padre scritta 40 anni fa ma non poterla leggere?
Hai in programma nuovi progetti da scrittore?
Ci sono diversi progetti. Prima dicevo che la storia della mia famiglia non è finita perché c’è ancora molto da scrivere e… ci sono molte cose insomma.