a cura di Elisa Maria Ricco
Salah Mahameed è un medico poeta di origine palestinese. Residente in Italia dagli anni Ottanta è una personalità di spicco nell’ambito della cultura mediorientale ed esprime la sua creatività come pittore, poeta e scrittore di favole in italiano e in arabo.
Partiamo dal tema del viaggio. Che cosa ti ha portato a lasciare Umm al-Fahm, il tuo paese natale, alla volta dell’Italia?
Sin da piccolo ho nutrito un forte desiderio per il viaggio, inteso sia come luogo fisico che come luogo del pensiero. Sin dall’età di otto anni ho cominciato a leggere molti libri grazie ai quali si aprivano di fronte a me diversi mondi e la conoscenza di altre culture. In seguito sono partito per Haifa per frequentare la scuola superiore ortodossa cristiana. Ero musulmano praticante e volevo scoprire l’essenza del cristianesimo per confrontarlo con il mio Islam. A vent’anni poi ho scelto l’Italia come meta dei miei studi successivi.
Qual è il ricordo più forte che hai della Palestina?
Non si tratta solo di un ricordo, la Palestina vive in me. Tutti i cittadini del mondo hanno una patria nella quale vivono e io sento la Palestina nella mia mente, la vivo tutti i giorni in tutte le sue sfumature. I ricordi sono quelli dell’infanzia. Dai 4 fino ai 7-8 anni sono cresciuto nella casa di mio nonno Suleiman che era considerato “mukhtar”, il sindaco del paese. È stato lui a educarmi e a insegnarmi gli autentici valori che appartengono al mondo palestinese, valori umanamente positivi non influenzati dalla cultura e dall’istruzione israeliana. In quegli anni trascorrevo il mio tempo in compagnia degli anziani del villaggio, studiavo e giocavo apprendendo molto anche dalla vita quotidiana. Mio nonno desiderava che io continuassi il suo mandato di trasmissione della cultura arabo-palestinese ma la presenza dei conflitti non hanno favorito questo percorso. Ho così intrapreso il viaggio della lettura: ho cominciato a circondarmi di molti libri, romanzi, favole e anche a frequentare la moschea e leggere il Corano. I ricordi di quegli anni sono indelebili nella mia persona. È un periodo della mia vita che ricordo con piacere, che provo a rielaborare e a rivivere con i miei familiari ed amici. Si tratta di un vissuto che provo a ricordare anche attraverso la scrittura descrivendo valori che l’Occidente spesso non conosce o non comprende. Non è facile capire l’essenza dell’arabo, soprattutto se consideriamo che oggi è l’arabo stesso ad essere confuso. È tutta la società araba che fa fatica a riconoscere la propria identità.
Come definiresti il tuo rapporto con l’Italia?
Il primo anno che sono arrivato in Italia ho vissuto a Bari, una città che mi ha affascinato e che si affaccia sul mare proprio come Haifa dove ho trascorso quattro anni della mia vita. Arrivato in Italia mi sono accorto che l’immagine di un Occidente inteso come società ordinata e tranquilla si scontrava con il fragore che ho incontrato a Bari, una città che si stava europeizzando perfettamente. Ho subito conosciuto attraverso un suo film Roberto Benigni, un personaggio che mi è molto piaciuto, malgrado all’epoca non capissi bene la lingua. Inoltre la presenza delle chiese, tipiche di una società cattolica, mi ha fatto subito sentire a casa. Provengo da una terra che è la culla del cristianesimo e sentivo che gli insegnamenti dei miei antenati come San Paolo e San Pietro erano radicati anche in Italia. Mi sentivo in famiglia. Non solo, in occasione della festa dell’Unità per le strade e per le piazze sentivo qualcuno che cantava “Bella ciao” e “Avanti Popolo!”. In precedenza avevo militato nel partito comunista e cantavamo queste canzoni senza saperne le derivazioni poi, quando ho capito che erano italiane, ho deciso di avvicinarmi alla sinistra italiana per la quale sono tutt’ora attivo. Non è stato difficile per me amalgamarmi, non mi sono mai sentito straniero. L’anno successivo mi sono poi trasferito a Padova, una città più calma rispetto a Bari e dove mi sono laureato.
Nel 1992 hai deciso di fondare l’Associazione Culturale Azzaytuna, ossia l’Ulivo. Quali sono le attività principali?
Promuoviamo attività culturali internazionali. La prima iniziativa è stata realizzata nel ’93 a Cortina D’Ampezzo in occasione dell’esposizione di una mostra curata da Milena Milani di una pittrice russa che militava nel Partito comunista sovietico. Si è trattato di una mostra significativa nella quale si affrontava il tema della perestroika quando il dialogo tra ovest e est stava ancora muovendo i primi passi. In seguito, attraverso l’associazione, abbiamo presentato diversi libri in numerose città italiane come Cortina D’Ampezzo, Padova, Venezia e anche all’estero in Tunisia, Marocco e Palestina. Un esempio è stata la presentazione in Tunisia della traduzione che ho realizzato di “Giovanna D’Arco” di Maria Luisa Spaziani. Ho inoltre tradotto il volume di poesie di Milena Milani dal titolo “Mi sono innamorata a Mosca” e pubblicato recentemente a Riad, in Arabia Saudita. La pubblicazione di quest’opera ha un significato importante perché parla di una storia d’amore, anche fisico, tra una donna cattolica comunista e un ebreo comunista nella Mosca degli anni Cinquanta. Organizziamo anche mostre che discutono il dialogo tra civiltà. Al centro della nostra attività c’è l’arte come lingua universale per promuovere il dialogo tra diverse culture.
Hai un’attività letteraria molto intensa. Da cosa nasce la tua passione per la scrittura?
Sin da piccolo amavo leggere e comporre poesie, quando abitavo nella casa di mio nonno Suleiman mi rifugiavo nei libri e passavo molte ore nei campi a scrivere. Una passione, quella della scrittura, senza la quale non vivo. Sono ed ero un poeta e come tale volevo avere la testa tra le nuvole ma i piedi per terra. Per questo motivo all’età di vent’anni ho rifiutato la proposta del partito di recarmi a Mosca per compiere studi sulla filosofia e sulla poesia. Volevo andare in Italia a fare medicina per indagare le sofferenze e per poter aiutare l’altro. Allo stesso tempo non ho mai abbandonato la scrittura e la pittura. All’epoca scrivevo poesie ma ero solito riporle in un cassetto, non pensavo a pubblicarle. Sono state due donne, la pittrice Rusakova e Milena Milani, ad incoraggiarmi nel farlo. Rusakova mi diceva “people need your poetry”. Così nel 1994 è uscito il mio primo libro intitolato “Sassi da Gerusalemme”. La mia seconda pubblicazione è stata “Il bambino che portò la pace” che ho scritto appena laureato e che è accompagnato da illustrazioni realizzate da una lettrice che si è appassionata a questo scritto. Un’opera che ho anche mandato in omaggio all’allora papa Giovanni Paolo II.
Che ruolo gioca all’interno delle tue opere il passato storico della tua terra?
Tutto è integrato. Quando scrivo sono Salah Mahameed, un palestinese che ha studiato medicina in Italia. Il ruolo viene da sé, si immerge da sé con il mio pensiero. Per esempio, quando ho conseguito gli studi in medicina ho presto scoperto che la mia forma mentis in qualità di poeta arabo-palestinese non è del tutto in sintonia con le convinzioni delle scuole psichiatriche e così ho deciso di rinunciare alla specialità. La mia visione sull’uomo è diversa da quello che loro applicano. E questa discrepanza emerge nel saggio “Psichiatrosi” che ho scritto nel ’94, pubblicato in seguito nel 2004. La prefazione dell’opera è stata scritta da Vezio Ruggieri, professore dell’Università Sapienza di Roma ed è stato proprio lui a costatare quanto il mio passato abbia influenzato l’opera. È stato lui a individuare il mio invito alla scienza occidentale nel rivedere le valenze religiose nel cammino sociale (in questo caso nella psichiatria e nella psicologia). L’Occidente con l’Illuminismo ha separato la sfera religiosa dalla politica e questa divisione si è estesa anche alla scienza e alla medicina. Al contrario, non vedo tanta conflittualità tra il concetto originario che è proprio del cristianesimo, dell’ebraismo e dell’islam con quello della scienza. Sono state le interpretazioni degli uomini a strumentalizzarne i messaggi e a dare l’immagine della religione come una prigione per la vita dell’uomo. Il mio passato influisce sulle mie opere da sola, senza che io lo vada ad interrogarlo.
Nelle tue poesie è forte il tributo nei confronti del poeta palestinese Mahmoud Darwish. Che cosa ha rappresentato per te?
Sin da piccolo è stato per me il padre spirituale. Mio padre era solito comprare libri, era un uomo dalla mentalità aperta e a me piaceva molto leggere le poesie di Mahmoud Darwish. Un giorno è successa una cosa strana, era il mattino del 9 agosto 2008 e quando mi sono svegliato ho immediatamente raccontato a mia moglie il sogno che avevo fatto: ero con Mahmoud Darwish e insieme andavamo a presentare poesie in diversi posti come Haifa, Tel Aviv e in Tunisia. Ero così felice che non mi sarei mai aspettato quella stessa mattina di trovare in un giornale la notizia che parlava della scomparsa del poeta e titolava “Addio a Mahmoud Darwish”. Ho scritto una serie di poesie dedicate a lui e pubblicate in Egitto dal titolo “Darwishiyyat”.
Il tuo pensiero sul celebre poeta siriano Adonis…
Adonis è il più grande poeta, non solo del mondo arabo. Il fatto che riesca a mantenere la sua mente intatta dalle tempeste internazionali è significativo. Leggevo le sue opere, ero affascinato dalle sue parole. Due mesi fa ho letto una sua intervista nella quale sottolineava che nel mondo islamico non ha trovato nessuno in grado di leggere la realtà con una visione moderna. Così ho deciso di chiamarlo per informarlo del mio libro intitolato “Il mio Islam” nel quale interpreto versi del Corano e sulla condotta islamica in una chiave scientifica. Un’opera che in seguito mi ha chiesto di inviargli. Lo stimo molto perché non è facile in questi tempi per un poeta arabo tenersi in equilibrio mantenendo la facoltà poetica in un mondo travolto da rivoluzioni. Adonis in questo senso è davvero il dio della mitologia greca.
Se dovessi indicare un libro che è stato significativo per te, quale citeresti?
Non ce n’è uno solo. Sin da piccolo leggevo su personaggi leggendari della storia. Sono rimasto colpito da Giovanna D’Arco e Giulio Cesare. Mi hanno affascinato anche il Don Chisciotte e le opere di Omero. In ogni libro scopro bellezze e argomenti che rimangono nella mia mente. Il Corano lo leggo spesso.
Dal 19 al 22 giugno si terrà a Padova il Festival culturale e sappiamo che stai lavorando al laboratorio d’intelletto nella letteratura mondiale. Ci spieghi di cosa si tratta?
Sono stato contattato dalla comunità marocchina che ogni anno organizza questo festival. Quello che ho notato è che troppo spesso viene data attenzione al folklore, ai piatti tipici come cous cous e tajine ma scarso è lo spazio dedicato alla cultura. Così quest’anno ho accolto la proposta di occuparmi dell’aspetto culturale. Sono convinto che si debba tirare fuori la cultura, mettere in evidenza l’influenza dell’arabo nella cultura mondiale. Nel dettaglio, si tratta di una-due-giorni di poesia che realizziamo grazie al patrimonio e ai rapporti che abbiamo intessuto come Azzaytuna. Sembra esserci una specie di benedizione su questo progetto che sta riscuotendo un’ampia collaborazione. Il poeta viene tradotto in lingua italiana per far conoscere le radici culturali degli arabi. Credo che da un punto di vista spirituale ci sia povertà e forse la crisi internazionale è dovuta anche a questo. L’uomo moderno è impregnato di scienza, tecnologia e medicina ma che viene male utilizzata. Credo manchi lo spirito, la poesia.
C’è un messaggio in particolare che vuoi trasmettere ai lettori?